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Poesia dialettale e società meridionale

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Messaggio  Alfonso Chiaromonte Mar 30 Dic 2008 - 17:48

Poesia dialettale e società meridionale di Antonio Motta
I dialetti, specie quelli meridionali, dove le modificazioni sono state più lente, hanno subito una sorte comune, ma differente da regione a regione. In genere annacquati più che minacciati di morte, considerati ancora forti selettori di classe più che combattuti; abbandonati all’indifferenza più che odiati. Questo equivico in cui è vissuto il dialetto ha favorito nella coscienza dei poeti più dotati una sorta di odio/amore nei suoi confronti e ha fatto sì che esso, volta per volta, fosse esaltato o venerato, difficilmente ricondotto nei termini di un giusto equilibrio tra lingua-dialetto-poesia dialettale. Di conseguenza la scelta dialettale si è caratterizzata sempre più come una scelta consapevole e riflessa, che ha portato il dialetto ad arretrare da “lingua della realtà a lingua della poersia” (M. Chiesa - G. Tesio). Anche Butitta è sempre più un cantore epico del popolo e delle classi subalterne siciliane che un poeta popolare; è sempre più un poeta dialettale popolare.
Collegandosi ad una tradizione letteraria siciliana di gusto realistico (da Verga a Di Giovanni, da Quasimodo a Sciascia), egli ha visto nella riappropriazione della lingua materna da parte dei carusi la condizione necessaria per il loro riscatto:
Un popolu, / diventa poviru e servu, / quannu ci arrobbanu a lingua/ addutata di patri: / è persu pi sempri: “Un popolo, / diventa povero e servo, / quando gli rubano la lingua / avuta in dote dai padri: / è perduto per sempre”. (in Io faccio il poeta, Feltrinelli, 1976, p. 54).
Il nesso che Butitta stabilisce tra cultura e dialetto è un fatto oggi acquisito e pacifico, ma che ebbe un valore emblematico per gli anni in cui i versi furono scritti e se rapportati alla produzione dialettale precedente da Lu pani si chiama pani del ’54 a Lu trenu di li suli del ’63. Il dialetto, dunque, come “peddi nova” di cui rivestrirsi per evitare la spoliazione umana che stava su bendo il Mezzogiorno negli anni seguenti il boom economico. La dilatazione semantica della dialettualità (Augieri), mediante la quale Butitta ha inteso sottolineare l’apertura dell’etnos popolare alla cultura egemone, ha un significato polemico e di confronto con la cultura nazionale e annulla ogni presunta neutralità del dialetto, incapace di adeguarsi ai contenuti di una realtà che va che va continuamente mutandosi.
In Butitta così il dialetto dà voce a quegli strati sociali che ancora, per varie ragioni, non sanno esprimersi in lingua; un’operazione simile e diversa a quella del Pasolini friulano di Poesie a Casarsa. Perché la lingua di Butitta è anche la lingua dei 'sottostanti' siciliani; soprattutto è l’espressione di una classe che è in “avanti”, risoluta ad avere un proprio ruolo e un proprio spazio nella storia del Mezzogiorno.
Sfarda sta cammisazza arripizzata, / tincila e fanni un pezzu di bannera, / trasi dintra li casi puvireddi, / scinni nni li carusi caezarati, / sduna pi li stratuna e li trazzeri, / chiama picciotti e vecchi jurnateri, / cerca dintra li funnachi e li grutti /l’omini persi, abbannunati e rutti, / gridacci cu la vuci d’un liuni: / “genti, vinni lu jornu a li diuni!”. “strappa questa camicia rattoppata, / tingila e fanne un pezzo di bandiera. / entra nelle case dei poveri, / scendi tra i carusi carcerati, / corri per stradoni e trazzere, / chiama picciotti e vecchi giornalieri, / cerca dentro i fondachi e le grotte / gli uomini persi, abbandonati e rotti, / gridagli con la voce di un ldeone: / gente, è venuto il giorno degli affamati”. (in Li pdeddi nova, Feltrinelli, 1977, p. 145).
Anche nella poesia di Santo Calì, la cui produzione è raccolta ne La notti longa (Linguaglossa, 1972, 2 voll.), sono presenti quei tratti riconoscibili della “sicilitudine”, che è l’aspetto sotterraneo della sua opera. Il suo dialetto affinatosi con la migliore tradizione novecentesca mediterranea è un dialetto più complesso, sperimentalmente nuovo rispetto a Butitta. Calì riscrive nei suoi lamenti la storia di generazioni siciliane abbrutite dalla fatica e che dagli arabi ai mille di Garibaldi non ha mai mutato faccia e padrone. Eppure nei confronti degli avi (“catanannavi de li me nannavi) Calì non ha mai un atteggiamento di rimpianti e di affetto. Polemico e duro, non sa trattenere amarezza e delusione con una lotta condotta con sfiducia e arrendevolezza. Chi legga “La notti longa” o “Lamentu cubbu pi Rocca Ciravula” avrà chiara la distanza che lo separa, ad esempio, da Vann’Antò, legato ancora ad una pronuncia tra l’arcadia e la simpatia popolareggiante. I suoi “travagghiaturi” non conoscono che la fatica durissima delle zolfare, ma la vivono proiettandola in uno spazio rassegnato e sensualmente goduto:
Ccu pacienza, miègghiu pàrtiri, / luna mia, luna amurusa! / Basta tuornu e viègnu a mòriri / ntra l’affettu ri Raùsa. “Pazienza: voglio partire, / luna mia, luna amorosa! / Purché torni e venga a morire / nell’affetto di Ragusa”. (in A pici. Ragusa, 1958, p. 106).
La riduzione del dialetto ad un’area lontana di affetti da recuperare sul filo del ricordo è avvertibile nella poesia colta di Albino Pierro, in cui i momenti della quotidianità e del vissuto diventano segni e simboli definitivamente sepolti nella memoria del proprio “io”. Da Metaponto (1963) a Curtelle a lu sòue (1973), Pierro stringe paesaggio e infanzia, vita e mortye, odori e colori della sua Tursi, in una lingua densa ancora di emozioni, ma nella misura in cui la scrive ne avverte la perdita per sempree. Non è un caso che Pierro, forse l’unico del secondo novecento dialettale, rimanendo fedele a se stesso, in una diecina di libretti, ha saputo darci una poesia esistenziale di ottima fattura solipsistica, in cui l’io del poeta s’identifica con la sua terra, pensata e vissuta interiormente.
Si ni stène scrijànne tutte quante, / st’amice mèje; / e mó, sti jurne scianghète / pisante com’a ll’acine di chiumme / di na ngannacche, / nd’u core ci s’affùnnete cchiù musce / d’u tréne-merce / ca ll’è nd’i róte ‘a raggia d’i zannète. “Stanno sparendo tutti, / questi miei amici; / ed ora, questi giorni sciancati, / pesanti come chicchi di piombo / di una collana, / nel cuore ci s’affondano più lenti / di un treno-merci / che ha nelle ruote la rabbia delle zannate”.
Uguale l’esito a cui giunge Pietro Gatti, uno dei più dotati poeti pugliesi, in a terra meje (Fasano, Schena Editore 1973).
Continua ………
Alfonso Chiaromonte
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Poesia dialettale e società meridionale Empty Re: Poesia dialettale e società meridionale

Messaggio  Alfonso Chiaromonte Mar 30 Dic 2008 - 20:53

Pietro Gatti, poeta colto, legato al mito della terra come mito dell’anima, la sua poesia è una ridiscesa all’interno di un mondo arcaico, fra relitti abbandonati, accumulo di civiltà lontane ( Gatti è di Ceglie Messapico, isola-spartiacque tra due culture, quella apula e quella sannitica), rivisitata in un dialetto che conserva un fascino antico e viscerale, legame/lingua alla terra dei padri e dei morti. L’impegno del dialetto si risolve nella dimensione lirica e letteraria, in un canto di individualità non socialmente condizionato.
La sua Ceglie, come la Tursi struggente di Pierro, è un paese dell’anima. In quest’operazione che li accomuna c’è “un particolare significato storico-antropologico della dialettalità vissuta come metafora memoriale e ricordo del passato: il bisogno di rifugio-ripristino della cultura nativa, aprioristicamnete considerata innocentepura nei confronti della “barbarie” capitalistica del presente, realizato secondo un tipo di operazione del tutto neutrale, sul piano dell’opposizione subalternità-egemonia, in forma di poesia, che, lontana dalle esperienze concrete del ceto popolare, è in dialetto e non dialettale (in A. Motta, Oltre Eboli: la poesia, Manduria, 1979, vol. I, p. 47).
Questo morboso sentimento verso il paese mitizzato aprioristicamente e confinato in uno spazio inaccessibile, conferisce al dialetto un carattere “reazionario” e impedisce di fatto al poeta di guardare in faccia la realtà e la vera belelzza del paese, che, come nella poesia di Benvenuto Lobina, rimanda ad un prersente che è emigrazione, sottosviluppo, povertà, violenza. Lobina di Terra disisperada terra: poesias (Milano, Jaca Book, !974) non rinuncia a questa fedeltà, avvertita come bisogno di lotta e di riscatto delle classi subalterne meridionali. Egli riumisce una forte sensibilità e una grade carica umana a un’incultura di base (autodidatta come Buttitta, come il garganico Borazio e il sardo Pietro Mura) che lo preserva dagli schemi della letterarietà. Il racconto tra lingua e “cose”, tra dialetto e “cose” in Lobina è perfetto. Il dialetto non è mai nostalgia nemmeno quando rievoca paesaggi affettivi e tradizionali e fa emergere una società ancora compatta nelel sue classi e nei suoi valori:
Mi zérrias, / terra, cum i sa osgi serregàda, / sa osg’ ‘e s’aradori ferenau / chi ara’ cun dua bàccasa stasias; / sa osg’ ‘e su pasturi cun sa cara/ segòd’ ‘e sa straccìa / in is pranus ti’ fridus; / cun i sa osgi / de femina tribulliòdasa / totu sa vida estìa de nieddu; / cun sa osg’ ‘e su trenu / chi sìghid’ a ancorea a ndi pigai / sa mellu’ gioventudi. “Mi chiami, / terra, con la voce roca, / la voce dell’aratoree irato che ara con due magre vacche; / la voce del pastore col volto / sferzato dai piovaschi / dei tuoi freddi altipiani; / con la voce / di donne tribolate / per tutta la vita vestite a lutto; / con la voce del treno / che continua a portar via / la gioventù migliore”.
Alla stessa generazione di Pierro, Gatti e Lobina appartiene il salentino Nicola Giuseppe De Donno. Si sottolinea subito il carattere documentaristico e ironico del dialetto del De Donno a partire dal folto volume Cronache e pabbule, Bari- santo Spirito, 1972, dove ancora resiste qualche nitida immagine nostalgica La notte di Natale, Lu panu fattu a ccasa, fino al recente Paese, in cui più insistita è la lezione graffiante del Belli. Questo recupero dall’interno del Belli è ravvisabile nell’uso sociale del dialetto, nel senso che esso s’iscrive nella realtà viva dei parlanti e in uno spazio geografico ben distinto: Maglie.
Direi che nel sonetto di De Donno emerge più il dato che non il senso lirico, la tensione civile e ideologica più che la gioia dialettale.
Ci coje firme pe lu referennu? / Quàrdali bboni an corpu e ppija nota: / tòniche e capistanza ca la Rota, / se crai li serve, li scioje fuscennu, / ca tènene ci l’unge cu lli ota: “Chi raccoglie firme per il referendum?/ Guardali bene in corpo prendi nota: / Tonache e notabili a cui la Ruota, / se domani gli serve, li sciogloie di corsa, / poiché hanno chi la unga che giri per loro”. (in Sidici sunetti pe lu divorziu, Maglie, 1974, p. 4).
L’intento di immettere il dialetto nel vivo delel idee è il dato più vistoso della poesia di Achille Curcio, che nel poemetto Tirituppiti, catta ‘a lira, Catanzaro, 1977 riesce a salvarsi dalle incursioni aotobiografiche e dalla pagina paesaggistica delle prove precedenti. Anche la satira di Curcio tocca la realtà sociale (la crisi monetaria, il divorzio, l’aborto, il fenomeno dell’espansione, soprattutto nel Mezzpgiorno…), discussa da personaggi dei ceti popolari.
I personaggi di Curcio rappresentano due mondi che si contrappongono: quella di Teresina che personifica la reazione) e quello della “cummara”, protesta verso le conquiste sociali; due mondi che sono il vecchio e ilo nuovo.
- Catta ‘a lira e chi succeda? / - Gesù mio, ca chi nda sacciu, / puru u radiu arribbeddhatu / nda parrava comu pacciu! / Anzi mò, chi m’arricordu, dissa puru stamattina / ca ‘u serpenta monetariu / cchiu non muzzica e cammina: “ – E’ caduta la lira? E cosa succederà? / O Gesù mio, non lo so / ma pure la radio ne parlava preoccupata / e come impazzita. / Anzi, ora che ricordo, stamane ha riferito / che il serpente monetario più non morde e cammina”.
Per i più giovani, in un contesto socio-culturale caratterizzato sempre più dalla domanda di “un italiano per tutti”, la scelta del dialetto apapre sempre più incerta e pericolasa. Resta ancora da vedere se i giovani che si rivolgono al dialetto sono in grado di immetterlo nel circuito dei parlanti e di aprirlo al confronto della nuov arealtà meridionale (come in Buttitta, Curcio, De Donno) o se la loro scelta è solamenbte un atto ideologico.
Il rischio va corso, perché la storia civile del Mezzogiuoeno va scritta anche con il dialetto.
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