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Salvatore Camilleri

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Messaggio  Flavia Vizzari Mer 1 Ott 2008 - 20:08

Salvatore Camilleri (Catania, 1921) è – certo non da oggi, in Sicilia e nel mondo – nel novero ristretto che esprime le voci più autorevoli del Dialetto Siciliano: e quanto alla sua veste di autore e quanto alla sua vocazione di letterato. E ciò, pure nella pressoché totale assenza di ogni ufficiale “visibilità”, malgrado le querelles che certe sue opzioni letterarie hanno suscitato, a dispetto del contesto di disinteresse dell’imprescindibile (oramai) supporto mass-mediatico.

Non lo diciamo noi, dal nostro modesto avamposto. Né tanto meno lo diciamo per captatio benevolentiae, per pedissequa infatuazione.

Lo affermano i fatti, quelli di una vita spesa al servizio della Poesia e della poesia dialettale siciliana in specie, i sessant’anni ed oltre di fervidissima, appassionatissima militanza: “Ho scritto Sangu Pazzu, la mia prima opera negli anni 1944-45. Essa rappresentava il diario in termini lirici di chi, reduce dalla guerra, ha visto franare tutti i suoi sogni”; e, se potessimo sfogliare la storia della poesia siciliana nell’arco temporale che procede dal secondo dopoguerra e attraversa gran parte degli anni Cinquanta (lasso che Paolo Messina definì della “nuova ouverture siciliana”) per spingersi fino ai giorni nostri: “Nella Catania del 1944, il gruppo di cui Salvatore Camilleri era l’animatore: Mario Biondi (nella cui sala da toeletta di via Prefettura si tenevano gli incontri diurni, mentre di sera li attendeva il salotto di Pietro Guido Cesareo, in via Vittorio Emanuele 305), Enzo D’Agata, Mario Gori ed altri già appartenenti all’Unione Amici del Dialetto, si ribattezzò (dietro suggerimento di Mario Biondi) Trinacrismo e La Strigghia, un solo foglio redatto perlopiù da Salvatore Camilleri e battuto a macchina da Enzo D’Agata, fu nel 1945 il loro giornaletto.”

Lo attestano, benché egli mai ami farne cenno, i riconoscimenti e le gratificazioni che nel tempo gli sono pervenuti da svariati circuiti culturali nazionali ed internazionali.

Lo testimoniano, a tagliare la testa al toro, le numerose pubblicazioni, di cui – non tanto per mero gusto di elencazione, quanto unicamente per dare manforte alla superiore asserzione e per procurarne cognizione a coloro che tuttora non ne dovessero essere ragguagliati – riportiamo solo i titoli principali:

nel 1948 una Antologia del Sonetto Siciliano (con una premessa rappresentata da un “Disegno storico della poesia siciliana”);

nel 1965, assieme con Mario Gori, la rivista Sciara, cui collaborano, tra gli altri, Leonardo Sciascia, Giuseppe Zagarrio, Giorgio Piccitto, Nino Pino e Santo Calì;

nel 1966, per i tipi dell’Editore Santo Calì, Ritornu e nel medesimo anno Sangu Pazzu, ove la lingua “non è catanese, né palermitana, ma rappresenta la koiné regionale, determinata dalla sola legge del gusto; l’ortografia è quella tradizionale liberata dalle incoerenze, legata alla etimologia latina, ma non sorda al rinnovamento linguistico”;

nel 1971 La Barunissa di Carini, da cui è stato tratto il noto filmato televisivo;

nel 1976 è la volta della Ortografia Siciliana, un’opera portata a compimento nel volgere di “dieci giorni di amore totale”;

nel 1977 Sfide, Contrasti, Leggende di Poeti Popolari Siciliani;

nel 1979 Luna Catanisa: “Non c’è risoluzione dei problemi formali senza risoluzione all’interno della coscienza, non c’è versante espressivo senza versante umano, non c’è arte senza vita. La poesia nasce sempre nell’ambito della sua dimensione storica, esistenziale e umana, non mai dall’esercizio fine a se stesso, dal nulla”;

nel 1983 la traduzione in Siciliano di 70 Poesie di Federico Garcia Lorca: “Nessuno procede da solo né nella vita, né per i sentieri della poesia; né mai poeta ha percorso la sua strada senza avere a fianco altri compagni di viaggio, altri poeti, senza ricevere e senza dare a quelli che vengono dopo”;

nel 1989 il MANIFESTO della nuova poesia siciliana, che raccoglie i saggi e gli interventi critici pubblicati, a partire dal 1975 allorché Alfredo Danese decide di fondare il periodico, su Arte e Folklore di Sicilia. Tra essi assai intriganti: il simbolismo, sentir siciliano, langue et parole, l’espansione denotativa, poesia e magia, non siamo dialettali!, il correlativo oggettivo. “Questo libro di saggi e poesie che hanno visto la luce negli ultimi quarantacinque anni, vuole avere, pur nella modesta area di diffusione, molti destinatari, che si spera non siano soltanto fruitori, ma soprattutto diffusori di idee”;

nel 1998 il Ventaglio – vocabolario italiano-siciliano. “Nel 1944, quando iniziai a scrivere in siciliano, sentii subito la mancanza di un vocabolario. Quelli che trovai, non più in commercio ma in biblioteche pubbliche, erano vecchi di quasi un secolo, e praticamente inutili, in quanto si trattava di vocabolari siciliano-italiani. Mancava il vocabolario che mi occorreva, come mancava a coloro che scrivevano per il teatro, agli attori dialettali, agli studenti, ai moltissimi appassionati del dialetto: mancava un vocabolario italiano-siciliano, cioè uno strumento capace di aiutarmi concretamente tutte le volte che non mi veniva in mente il corrispondente siciliano di un vocabolo italiano”.

Tra le pubblicazioni del terzo millennio:

Lirici Greci in Versi Siciliani (Archiloco, Mimnermo, Stesicoro, Alceo, Anacreonte, Simonide, Callimaco, Teocrito ed altri) del 2001. “Traduco perché le mie traduzioni, come i miei versi, possano far parte della cultura siciliana. E’ stato un esercizio propedeutico fondamentale: mi ha aiutato a fare i conti, ancora una volta, con la versificazione, e ad averne ragione, e ciò nelle situazioni più difficili, quali sono quelle che si presentano a chi traduce; mi ha permesso di misurarmi con i poeti che traducevo, e che innalzavano, mettendomi in sintonia con la loro intelligenza poetica, i miei livelli di ispirazione; e infine ha favorito, dopo tante esperienze, la creazione di un mio linguaggio poetico, il linguaggio delle mie opere”,

Saffo e Catullo – poeti d’amore,

Grammatica Siciliana del 2002,

la monumentale Storia della Poesia Siciliana, in 30 volumi di cui solo alcuni finora hanno visto la luce, che ambisce a fissare organicamente la poesia siciliana di tutti i tempi,

e per ultimo Gnura Puisia, del 2005, con in appendice i poeti arabi di Sicilia Ibn Hamdìs e Muhammad Iqbàl.

Tanto premesso, posto che la diffusione delle opere dell’intelletto passa oggi – come del resto ogni altro prodotto – anche attraverso la loro promozione, e in favore dei libri e della cultura di promozione sembra non se ne faccia mai abbastanza, cogliendo lo spunto dalle molte questioni tuttora aperte circa la scrittura del dialetto siciliano, e nell’intento di partecipare la soluzione proposta da Salvatore Camilleri in rapporto a qualcheduna di quelle questioni, desideriamo in questa circostanza nello specifico trattare della sua Grammatica Siciliana, illustrandone per rapidi cenni solamente talune più stimolanti materie fra le molteplici affrontate.



“Poesie in dialetto siciliano”, leggiamo spesso in copertina sotto i titoli dei volumi che noi stessi e i nostri amici pubblichiamo. Talvolta “Poesie nel Siciliano di … ”, e talaltra “Poesie in dialetto siciliano secondo la parlata di … ” (e seguono rispettivamente il nome e il cognome dell’autore e la denominazione di una della miriade di città, di frazioni, di borgate della nostra Isola).

Questo dato ci offre il destro per argomentare (succintamente) sul problema che, tutt’oggi, investe una parte significativa degli scriventi in Siciliano, i più avvertiti, coloro che ambiscono a collocarsi in maniera seria al cospetto del Dialetto, desiderano conferire dignità al sudato esito della loro “penna” quale che ne sia il registro, e si pongono perciò, nella mira di sottrarsi alla malia dell’arbitrio, domande del tipo: “Come si scrive il Siciliano? E quale Siciliano scrivere?”.

Sono questi, difatti, interrogativi che necessitano di una soluzione a priori, vale a dire prima di affrontare il foglio bianco. E non già per loro stessi, per riuscire a sfornare un “prodotto” che catturi il plauso del pubblico, né tanto meno per carpire il favore della “prestigiosa” giuria di turno; quanto perché ogni scrivente deve acquisire determinatezza, coscienza, responsabilità del proprio dettato.

E non crediamo sia sufficiente, a tal proposito, essere nati - e cresciuti - nell’Isola!

Noi tutti diveniamo sì in virtù di ciò dei “parlanti”, diveniamo ovvero, naturaliter, titolari della parlata. Per procurarci tuttavia l’altra più impegnativa prerogativa, la prerogativa della comunicazione scritta, la prerogativa che ci qualifichi “scriventi”, occorre una formazione volta all’apprendimento della Storia della Sicilia, occorre la frequentazione consapevole delle opere degli autori siciliani e dei saggi inerenti al Dialetto, occorre un preliminare diligente esercizio di scrittura. In definitiva, bisogna amare il Siciliano, bisogna votarsi toto corde ad esso e praticarlo con l’animo sbarazzato da ogni pregiudizio, sufficienza, spocchia, bisogna studiare il Siciliano. Come del resto usiamo ogniqualvolta intendiamo rapportarci correttamente con qualsivoglia idioma: sia esso il medesimo nostro Italiano, sia esso una lingua straniera: il Francese, l’Inglese, il Tedesco, eccetera. Sacrosanto, dunque, che ci sia cuore, passione, ingegno in chi scrive; ma parimenti non può difettare, a nostro avviso, la forma, la disciplina, la scelta.

Il problema afferente alla scrittura del Siciliano – appare così del tutto evidente – non è di agevole soluzione. Da oltre un secolo, dall’Unità d’Italia e dalla affermazione del Toscano quale lingua dei sudditi del Regno che avrebbero dovuto decretare la scomparsa dei dialetti della penisola – Siciliano compreso di conseguenza, a dispetto del suo plurisecolare passato di storia e i poeti che l’avevano celebrato – esso è all’ordine del giorno. Ammesso che prima vi sia stata, una convenzione univoca di trascrizione del Siciliano oggi non vi è più, e tutto è demandato al criterio, all’estro, al buon senso di chi scrive.

La questione, riproposta non da ultimo nel secondo dopoguerra del Novecento da un manipolo di poeti e letterati isolani, non ha sortito il florilegio di studi auspicabile, e tutto si è ricondotto alla tensione ideale verso una unità ortografica della scrittura, alla proclamazione di principio che vengano dettate alcune regole ortografiche comuni. Elementi propizi e opportuni sottolineano gli studiosi, quantunque non necessari e di non facile praticabilità.

In questo clima, con riferimento ad esempio a uno fra i poeti più grandi del Novecento appunto, Alessio Di Giovanni che entrambi in epoche successive li praticò, gli esperti hanno individuato due grandi aree: quella del metodo etimologico, che attiene all’origine, alla derivazione, alla ricostruzione dell’evoluzione delle parole, e quell’altra del metodo fonografico, ovvero della trascrizione del suono della parlata, benché questa sempre diversamente modulata da ognuno dei parlanti.

Come venirne, allora, a capo?

Noi non disponiamo di formule magiche, di soluzioni preconfezionate, di scorciatoie. Ognuno di noi pertanto, ciascuno degli scriventi, dovrà trovare in sé la propria strada, la propria sintesi, la propria espressione.

Quale comunque che alfine sarà la scelta di campo, assicuriamoci che il nostro scritto sia espresso con forme, immagini, spirito siciliani, che risulti dignitoso, che sia ossequioso di una coerenza interna. .....
Flavia Vizzari
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Spicialista
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Messaggio  Flavia Vizzari Mer 1 Ott 2008 - 20:08

La Grammatica Siciliana, asserisce Salvatore Camilleri nella introduzione al volume, è il “risultato dell’impegno assiduo di quasi un ventennio, anche se materialmente è stata scritta in poco più di due mesi.” Essa riprende e amplia i problemi osservati nella Ortografia Siciliana e li pondera, li sviscera in tutti i loro aspetti, alla luce dei contributi scaturiti dagli incontri con gli amici con cui egli ne discuteva, tra i quali: Maria Sciavarrello, Antonino Cremona, Paolo Messina, e dello sprone incassato da Ignazio Pidone, Orio Poerio, Giovanni Cereda.

Le sue quasi duecento pagine sono suddivise in tre sezioni: Ortografia, Morfologia, Sintassi.

L’alfabeto siciliano si compone di ventitre lettere, le ventuno di quello italiano più due che lo caratterizzano: la DD, da non confondere con la doppia d che è un segno diverso, e la J, una consonante, da non confondere con la i che è una vocale.

La dd rappresenta il suono più caratteristico della lingua siciliana, derivante dal tardo-latino (capillus, caballus etc.) talmente fuso nella pronuncia da essere considerato un segno a sé stante e non il raddoppiamento di due d. Infatti la suddivisione sillabica di addivintari, ad esempio, è ad-di-vin-ta-ri, mentre quella di cavaddu è ca-va-ddu. Da rilevare in aggiunta che il suono di d è dentale, mentre quello di dd è cacuminale. Non sono mancati nel tempo i tentativi di sostituire il segno dd con ll, ddh o ddr, e con i puntini in cima o alla base di dd, ma gli uni e gli altri si sono arenati.

Il segno j si caratterizza perché assume nel contesto linguistico tre suoni diversi e precisamente:

suona i quando segue una parola non accentata (ad esempio, quattru jorna) ed anche quando ha posizione intervocalica (ad esempio, vaju, staju, e in effetti sarebbe ora di scrivere vaiu, staiu);

suona gghi quando segue un monosillabo, dopo ogni e dopo la congiunzione e (ad esempio, tri jorna, ogni jornu, curriri e jucari);

suona gn quando segue in, un, san o don (ad esempio, un jornu, san Jachinu).

Se fosse, come viceversa sostenuto, una vocale il segno J dovrebbe ubbidire alla regola di tutte le vocali, a quella cioè di fondersi col suono della vocale dell’articolo che lo precede, dando luogo all’apostrofo. Così come noi scriviamo l’amuri (lu amuri) dovremmo pure scrivere l’jornu, l’jiditu, eccetera, cosa che nessuno si sogna di fare, appunto perché, essendo il segno J una consonante non vi è elisione, e quindi non è possibile l’apostrofo, il quale si verifica all’incontro di due vocali e mai di una vocale e di una consonante.

Tipico della lingua siciliana è il fenomeno che viene a instaurarsi con le vocali e e o tutte le volte che perdono l’accento tonico in quanto cambiano rispettivamente in i e u (c.d. vocali mobili). Ad esempio: lettu - littinu, veru - virità, volu - vulari, sonnu - sunnari, eccetera.

Sono altresì peculiarità il fonema nasale NG (sangu, lingua, longu) e la affricata TR (tri, latru, petra) che in Siciliano suonano diversamente dall’Italiano.

Ulteriore singolarità della lingua siciliana, legata al Latino, è costituita dalla perifrastica (da perifrasi: giro di parole, circonlocuzione), che in Siciliano viene resa mutando però il verbo Essere in Avere. Il Latino mihi est faciendum in Italiano si rende difatti con la perifrasi io debbo fare, mentre il Siciliano lo rende con aju a fari.

Di regola il plurale dei nomi, sia maschili che femminili – scrive Salvatore Camilleri – termina in “i”; ad esempio: quaderni, casi, pueti, ciuri. Un certo numero di nomi maschili terminati al singolare in “u” fanno il plurale in “a” alla latina; sono nomi che di solito si presentano in coppia o al plurale: jita, vrazza, labbra, corna, ossa, vudedda, coccia, gigghia, mura, cuddara, pagghiara, linzola, dinocchia, cucchiara. Molto più numerosi sono i plurali in “a” dei nomi maschili terminati al singolare in “aru” (latino arius) significanti, in gran parte, mestieri e professioni. Se ne elencano (tra gli oltre un centinaio riportati in due pagine, n.d.r.) i più comuni: aciddara, birrittara, bummulara, buttunara, cacucciulura, campanara, carvunara, ciurara, dammusara, fimminara, firrara, friscalittara, furnara, ghirlannara, jardinara, jurnatara, lampiunara, libbrara, marinara, massara, matarazzara, mulinara, nguantara, nutara, paracquara, pastara, picurara, pisciara, pupara, putiara, quadarara, quartara, ricuttara, ruluggiara, scarpara, siggiara, stagnatara, tilara, tabbaccara, usurara, uvara, vaccara, viscuttara, vitrara, zammatara.

La forma più frequente in Siciliano per rendere il superlativo assoluto è quella di fare precedere l’aggettivo dall’avverbio “veru”. Sono altresì usati gli avverbi “assai” e “troppu”: veru beddu, troppu granni, eccetera.

Come del resto è avvenuto in altre lingue, il verbo Essiri ha perduto, in favore del verbo Aviri, le funzioni di verbo ausiliare. Per cui diciamo: aju statu, aviti statu, eccetera.

Da sottolineare inoltre il ripiegamento del (tempo) Passato Prossimo a beneficio del Passato Remoto (ad esempio: chi dicisti? mi manciai na persica), e del (modo) Condizionale a vantaggio del Congiuntivo (ad esempio: si lu putissi fari lu facissi, ci vulissi jiri).

Nel dialetto siciliano manca il (tempo) Futuro dei verbi e ogni proposizione riguardante un’azione futura viene costruita al presente e il verbo si fa precedere da un avverbio di tempo (ad esempio: dumani vegnu).

Marco Scalabrino



http://www.poiein.it/autori/2006/2006_12/12_Scalabrino_Camilleri.htm
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Messaggio  Giuseppe La Delfa Gio 27 Mag 2010 - 18:10

Riceviamo personalmete dalle mani del professore Camilleri questo gradito invito che estendiamo ai nostri forumisti
Pippo

IL COMUNE DI SANT'AGATA LI BATTIATI

Sabato 29 Maggio 2010 alle ore 20,45 presso la sala "M.G. Cutuli" della Biblioteca comunale di S. Agata li Battiati (Ct) , in via dello stadio 19, invita la S.V. a partecipare alla serata in ONORE DEL PROF. SALVATORE CAMILLERI , nel corso della quale sarà presentato iun libro "Biribò viaggio autobiografico in versi siciliani (ed. cu.ec.m.) Letture scelte e recitate da Orazio Aricò .
Il prof. Camilleri, studioso, critico letterario, scrittore e poeta , rappresenta la massima espressione della cultura in lingua siciliana . Il suo vacabolario e la sua grammatica della lingua siciliana sono il compendio di una vita vissuta ascoltando la parlata di ieri e di oggi che, trascrivendola nelle proprie opere , preserva dall'angoscia del tempo.

lL'assessore alla cultura Il Sindaco
Guglielmo Ferro Carmelo Galati




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Giuseppe La Delfa
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Canuscituri
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