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LINGUA O DIALETTO NAPOLETANO?

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Messaggio  Flavia Vizzari Gio 10 Gen 2008 - 6:39

In margine alla tavola rotonda su «Caratteri, mutazioni e capricci del dialetto napoletano»

S’è svolta, il 18 ottobre scorso, nella libreria “Edicolè”, in piazza Municipio, la tavola rotonda su «Caratteri, mutazioni e capricci del dialetto napoletano», organizzata dal Premio Masaniello 2007, con la partecipazione di Ettore Capuano, don Matteo Coppola, Lucia De Cristofaro, Umberto Franzese, Carlo Iandolo e Luigi Rispoli, oltre a chi scrive queste righe, cui l’impostazione del titolo dato all’incontro-dibattito e alcuni argomenti addotti dai relatori sollecitano qualche considerazione. Innanzitutto, il problema della qualificazione d’un idioma come lingua ovvero come dialetto non può ritenersi correttamente posto – come, viceversa, si continua a fare – in termini quantitativi, ovvero d’estensione territoriale e/o d’ampiezza di popolazione, bensì dev’essere posto in termini qualitativi: vale a dire, che un’espressione idiomatica potrà essere considerata “lingua”, non già perché adoperata da una collettività più o meno consistente numericamente ovvero abitante su un territorio di parimenti consistente estensione, bensì perché in essa siano presenti peculiarità di morfologia grammaticale e sintattica, da una parte, e, dall’altra, una sufficiente articolazione nel tempo della letteratura; e non v’è dubbio che nella parlata napoletana entrambe tali caratteristiche siano presenti. Quanto alle caratteristiche della grammatica e della sintassi, infatti, credo sia sufficiente citare le due più significative, che s’identificano con il “dativo dell’oggetto” (es.: “aggio ‘ncuntrato a Pascale”) e con la funzione ottativa/esorcizzante del futuro dei verbi (es.: “appriess’a vuje jisciarràggio pazzo”, ovvero “a seguire voi, impazzirò”, il che, poi, temo e, d’altronde, sicuramente, non mi farà piacere). Quanto alla letteratura, inoltre, benché la tradizione dell’idioma napoletano sia essenzialmente orale, tuttavia, non sono mancati scrittori che abbiano ne fatto uso nelle loro opere, a cominciare da Loise de Rosa, che scrive i suoi ricordi fra il tardo periodo angioino e quello aragonese, fino a poeti contemporanei, che rispondono, fra gli altri, ai nomi di Salvatore Tolino, Vincenzo Fasciglione e Rosetta Fidora Ruiz, passando attraverso figure a tutto tondo, da Giulio Cesare Cortese a Giambattista Basile, da Pompeo Sarnelli a Filippo Sgruttendio, da Salvatore Di Giacomo a Ferdinando Russo, a tacer d’altri. Né, poi, sembra corretto invocare a sostegno della tesi opposta il fatto che il napoletano, diversamente dall’italiano, non sia mai stato “lingua nazionale”: se, infatti, per qualificare la lingua italiana è necessario adoperare quell’aggettivo, ciò significa che esiste anche un concetto di “lingua non-nazionale”, di “lingua”, cioè, e null’altro, che risponde ai requisiti di cui sopra. Eppoi, per quanto non sia legittimo fare la storia interrogandosi sul naso di Cleopatra, non ci si può non domandare quale sorte avrebbe avuto la parlata napoletana, se non si fosse addivenuti all’Unità nazionale. A proposito della quale, anzi, è il caso di ricordare come essa abbia portato con sé l’idea dello sradicamento dei localismi – da quello storico (con la repressione delle ricerche di storia municipale), a quello linguistico (con la diffusione, sia nelle scuole, che nelle famiglie, dell’idea che l’uso della parlata locale equivalesse a “parlar male”) –, al punto che ancor oggi si fatica a far accettare discorsi svolti nella lingua di Velardiniello, anziché in quella di Dante. Ben accetta, dunque, sarebbe stata una legge nazionale – come quella che, proposta dai parlamentari Sergio Cola (A.N.) e Vincenzo Maria Siniscalchi (D.S.), durante la passata legislatura, e rimasta allo stadio di disegno di legge – che tuteli la lingua (ora sì che posso dirlo) napoletana, così, come potrà esserlo una legge regionale, del tipo di quella d’iniziativa del consiglio provinciale di Napoli, tuttora all’esame della Regione Campania, alla quale, però, va rimproverato il torto di conferire eccessivo potere alla cultura accademica, la quale spesso manifesta diffidenza verso un’espressione linguistica locale, magari, anche quando essa costituisce l’oggetto espresso dei suoi studi.

Sergio Zazzera


http://www.ilbrigante.com/modules.php?name=News&file=article&sid=14129


Ultima modifica di Flavia Vizzari il Gio 25 Feb 2010 - 8:17 - modificato 1 volta.
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Messaggio  Alfonso Chiaromonte Gio 10 Gen 2008 - 13:11

La prima operazione mentale da fare nel rapportarsi al dialetto è questa: rendersi conto di come esso sia un prezioso bene culturale.
In un'epoca in cui giustamente si è riconosciuto il valore dei beni monumentali ed ambientali, e si cerca di tutelarli nel modo più incisivo possibile, è necessario che lo stesso avvenga per la nostra parlata. Se la montagna perdesse il proprio dialetto, sarebbe come se un gigantesco incendio mandasse in fumo tutti i boschi, o se si seccassero tutte le sorgenti.
Un pezzo incommensurabile della nostra storia, della nostra cultura andrebbe perduto. Andrebbe perduto quel meraviglioso insieme di sensazioni, sonorità, profumi, emozioni che solo il dialetto ci sa trasmettere nell'animo.
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Messaggio  Alfonso Chiaromonte Dom 13 Gen 2008 - 15:42

LINGUA O DIALETTO?
Io penso tutti e due. Anzi, uno deve essere di sostegno all'altro.

Nicola Zingarelli, il ben noto autore del vocabolario della lingua italiana, nel discorso inaugurale del museo delle tradizioni popolari di Foggia, pubblicato dal Popolo Dauno il 4 aprile 1932, così diceva:"... è necessario salvare dalla dimenticanza e dalla dispersione quanto si può dell'antico ed impedire che il presente vada in avvenire disperso...".
Il linguista Gaetano Berruti scriveva:"Il dialetto deve vivere non perché è necessario, ma perché è lo strumento che consente a determinate culture e tradizioni di sopravvivere. Deve vivere anche perché corrisponde alle esigenze culturali dei gruppi locali".

I dialetti sono delle vere e proprie lingue con un loro lessico e loro strutture grammaticali, che non hanno nulla da invidiare alla lingua italiana, la quale era inizialmente un dialetto anch'essa, e precisamente il dialetto toscano nella varietà del fiorentino, prevalso sugli altri della penisola, grazie all'uso che ne fecero alcuni grandi scrittori del trecento: Dante, Petrarca, Boccaccio...
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Messaggio  Flavia Vizzari Lun 28 Lug 2008 - 0:29

Certo che è un discorso molto complicato, poichè su si parla di napoletano come lingua, ma il napoletano è espresso in maniera uguale in tutta la Campania? Non ci sono diversità di idioma da provincia a provincia come per il siciliano? Come operare le scelte?
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Messaggio  Alfonso Chiaromonte Lun 28 Lug 2008 - 9:47

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Messaggio  Admin Lun 28 Lug 2008 - 20:01



bhè a questo link si dice che alcuni modi di dire vanno scomparendo....no?
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Messaggio  Alfonso Chiaromonte Lun 28 Lug 2008 - 22:18

Certo... ma è così...
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Messaggio  Flavia Vizzari Lun 28 Lug 2008 - 22:23

Si, ma io chiedevo, se il Napoletano ad esempio di Caserta, se è diverso da Sorrento o da Empoli....
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Messaggio  Alfonso Chiaromonte Lun 28 Lug 2008 - 22:26

No... il napoletano è napoletano in tutta la campania..
anzi.. qualche cittadina confinante con il Lazio dà l'accento del romanesco e così a vviene per qualche cittadina laziale confinante con la Campania... dove si sente un accento romanesco....
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