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Intervista a Ugo Vignuzzi sul tema del dialetto:

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Intervista a Ugo Vignuzzi sul tema del dialetto: Empty Intervista a Ugo Vignuzzi sul tema del dialetto:

Messaggio  Admin Mer 30 Nov 2011 - 23:18

15 gennaio 2011 - di Chiara Aranci

Dialetti sì, dialetti no. Il tema del dialetto si fa sempre più caldo e diventa sempre più parte delle cronache politiche degli ultimi mesi. Ma qual è il ruolo di questo prezioso patrimonio accanto alla lingua italiana? Reporternuovo ne ha parlato il professor Ugo Vignuzzi, docente di dialettologia all’Università La Sapienza di Roma.

- Professor Vignuzzi qual è il peso della produzione dialettale nel mare magnum della letteratura italiana?

“Dipende dalla posizioni teoriche: Croce avrebbe risposto che la letteratura dialettale d’arte è riflessa e quindi è collaborativa al resto della letteratura italiana. Contini invece rivisitando Croce ha sostenuto autorevolmente, e io sono perfettamente d’accordo, che la produzione dialettale è una delle due facce della letteratura italiana. Un detto recita: “La letteratura dialettale è visceralmente e inscindibilmente collegata sin dalle origini alla letteratura italiana”. Riferendoci al modello del policentrismo, quello che De Mauro ha chiamato “Italia delle Italie”, le letterature dialettali come letterature pluricentriche sono componenti intrinseche della letteratura italiana. Se si pensa che d’altra parte il fiorentino dantesco prima di essere italiano era fiorentino, cioè un dialetto.”

- Qual è la differenza tra lingua e dialetto? Per lei è valido il l’aforisma: “Una lingua è un dialetto con un esercito ed una marina militare”, per cui la distinzione fra lingua e dialetto è di natura politica, più che linguistica?

“Nessuna differenza. La mia definizione è che “una lingua è un dialetto che ha fatto carriera”. Certamente l’aforisma non è applicabile all’Italia. L’Italia è una costruzione culturale di intellettuali letterati, prima di essere uno Stato, e quindi noi abbiamo avuto una lingua molto prima di un esercito. Lo stesso termine è stato ripreso per il medioevo da Brunetto Latini, che lo ha usato per la prima volta in francese sennò non ci chiameremmo Italia, che è un termine colto, ma Talia o Taia. Quindi, è tutta una costruzione culturale di umanisti e preumanisti, ma detto questo l’italiano è una dei tanti dialetti che “ha fatto carriera”, è cioè il fiorentino delle tre corone (Dante, Boccaccio, Petrarca). La grande e fondamentale differenza è che, mentre le lingue sono scelte politiche, l’italiano è una lingua “senza impero”, una lingua che non è stata imposta da nessun potere politico ma frutto di una libera scelta degli intellettuali. La distinzione fra lingua e dialetto è squisitamente di natura politica: ogni dialetto può diventare una lingua, purché non sia soltanto una scelta culturale ma anche economica. Il dialetto è la lingua di comunicazione primaria identitaria del gruppo che serve a parlare di cose di tutti i giorni, se vogliamo farlo diventare una lingua bisogna costruire un lessico scientifico, e poi burocratico, amministrativo e tecnico e costa un sacco di soldi. E’ sempre una scelta di natura politica che però richiede grandissimi problemi di natura socio-storico-economico. Insomma un dialetto nasce dall’uso, una lingua si crea e si codifica e quindi ci vuole un impegno politico.

Il dialetto è la lingua prima, spontanea, di una comunità che si riconosce tale legata a un luogo. In Italia abbiamo una differenziazione linguistica spaventosa, unica nel mondo. Una differenziazione simile si ritrova in Cina o in India, solo su milioni di persone e su spazi molto più grandi. Ma non hanno differenziazioni come i nostri dialetti. I nostri dialetti hanno questo di fondamentale: sono comunità che hanno una memoria collettiva che va dai mille ai duemila, duemilacinquecento anni. E anche questo fa parte della nostra identità d’italiani: sono tutti apporti proprio alla comune identità.”

- Sono valide le sopravvivenze dialettali di oggi?

“Nel momento in cui l’italiano è diventato parlato, larghissima parte dei termini del quotidiano sono venuti dai dialetti. Per cui veri dialetti dell’italiano di oggi sono gli italiani regionali, nel senso di macro aree, per cui, per esempio, quello che nel nord si chiama branzino, nel centro sud si chiama spigola. Spesso abbiamo elementi concreti che ci indicano che non siamo unificati per niente e vengono dai dialetti.”

- I dialetti italiani sono patrimonio della nostra cultura, pensa che siano debitamente tutelati dalle nostre istituzioni ?

“Il problema è cosa significa tutela. Io sono contrarissimo all’insegnamento dei dialetti, in quanto il dialetto è qualcosa di fluido. Se noi lo insegniamo corriamo due rischi: il primo è di ucciderlo. Tutto quello che fa la scuola dà fastidio ai ragazzi: se c’ è un testo che è bellissimo da leggere sono i “Promessi Sposi, che il 99 per cento degli italiani odia proprio per averlo dovuto studiare a scuola. Secondo: se noi dobbiamo insegnare un dialetto, dobbiamo per forza insegnare un dialetto “colto”, dove per esempio certe oscillazioni non possono essere accettate, a meno che non si mettano tutte ma questo diventerebbe un modello impossibile. Gli stessi dialettofoni si accorgerebbero che neanche la loro dialettalità è valida, perchè quella che la scuola insegna è un’altra. Perchè il dialetto non è soltanto una varietà linguistica ma un’interpretazione della realtà: un’interpretazione molto amichevole, calda, ma anche “rozza”, il vero dialetto parlato può lasciare perplessi. Si pensi che il vero saluto di un romano in romanesco è: “Che te possa’ pijà un colpo, quanto stai bene!”. Questo sulla bocca di Fabrizi o di Verdone può star bene ma io non posso certo insegnarlo. Andrebbe insegnato quindi il vero dialetto e non una forma ibrida che è un italiano dialettizzato. Meglio insegnare cultura dialettale: insegnare ai giovani di un territorio dai racconti degli anziani in dialetto come si viveva, i proverbi, le tradizioni che hanno un plusvalore come quelle gastronomiche, artigiane.”

- Perché uno scrittore sceglie di scrivere in dialetto? E’ un atto d’amore verso la propria terra o una scelta di una precisa identità?

“Beh dovrebbe chiederlo a lui. Comunque non trovo che sia un aut ma un et. Nel momento in cui si ha un’identità, normalmente la si ama. La rivendicazione d’identità è un atto di amore. Fino al ‘900 il dialetto era una lingua “della realtà”. Poi è diventato uno spazio sempre più aperto come spazio ulteriore soprattutto di soggettività lirica. Per cui oggi si parla di neodialettalità. Si pensi a un caso più unico che raro che però e tipico: Fabrizio De Andre’. L’ artista non parlava genovese, ma ha scritto “Creuza de Ma’” andando a prendere il dialetto genovese di fine ‘800, nei vocabolari, quello del testo non è il genovese contemporaneo. Si parla quindi di neodialettalità quando la lingua diventa letteraria sulla base di una soggettività personale: il poeta può scrivere, al limite, perfino in una lingua che non esiste. Non è detto che lo scrittore debba possedere quel dialetto a livello parlato, ma soprattutto lo rielabora. Un po’ come Dante con la Divina Commedia. L’opera dantesca è il modello più forte di lingua letteraria ma reale: nel senso che non c’ è nulla che contraddice il fiorentino dell’epoca di Dante, ma c’è molta altra roba che non è fiorentino del suo periodo. Dante ci ha messo dentro tutto, anche il fiorentino che apparteneva alla generazione dei suoi nonni. Lo stesso oggi fanno i grandi poeti dialettali che usano il dialetto dell’aerea. Secondo me oggi uno scrittore scrive in dialetto per esigenze di soggettivismo realistico, il che me ne rendo conto è perfettamente un ossimoro: qualcosa che io posseggo ma su cui posso esplicare una libertà linguistica che la lingua non mi permette.”

- Come si spiega il caso “Camilleri”, qual è la sua fortuna?

“Camilleri è un “contastorie”. Ha imparato quella lingua da un contastorie, un contadino del suo podere. Quella che usa è una lingua coltissima, infarcita di tradizioni letterarie e trova nel dialetto uno spazio di soggettività, contemporaneamente realista, che gli permette di usare una lingua mescidata. Oggi nessuno scrive in dialetto stretto perchè si porrebbero due ordine di problemi:chi lo parla e chi lo legge. Camilleri si capisce perchè anche usando parole estremamente marcate, queste sono inserite in un contesto tale da far capire il senso. La scelta di scrivere in dialetto crea degli spazi di maggior libertà e di maggiore gioco linguistico.”

-La letteratura dialettale segue le stesse regole della letteratura italiana?

“Se dialettale colta sì. Se sono due lingue autonome non si vede perchè debbano seguire regole diverse. Il dato di fatto è che appartengono alla stessa cultura. Ecco, quello che dice Contini, fin dall’inizio, è l’altra faccia della medaglia, cioè da una parte abbiamo la letteratura alta e poi la letteratura altra che si fonda sui livelli bassi che sono presenti anche nella commedia. L’utilizzo del dialetto in letteratura: oggi c’è la tradizione e abitudine di autotradursi in italiano, almeno nella poesia. Nel caso della prosa diventa molto pesante. Spesso sono grandi poeti, come Pasolini, che poi si traducono in italiano. Questo la dice lunga sul problema veicolare.”

- L’utilizzo del dialetto in letteratura non rischia di far rimanere sconosciuta, molto localizzata e di nicchia la produzione letteraria dialettale? O l’utilizzo in letteratura del dialetto può essere il mezzo per farlo sopravvivere?

“Fare previsioni in campo di fenomeni umani è sempre difficile. Da 150 anni si dice che i dialetti stanno scomparendo, ma in realtà non sono scomparsi. Che abbiano subito delle enormi trasformazioni è vero, perché negli anni ‘60 è finita la realtà contadina e a seguire c’è stata l’italianizzazione di massa della televisione. Ma è anche vero che il glocalismo ha portato a fenomeni di difesa locale. Io non sono sicuro che insegnare un dialetto regionale in una certa area serva a difendere il dialetto, così come sono convinto che scrivere in letteratura dialettale possa servire agli altri. Quello che serve sarebbe una cultura dialettale, cioè insegnare a tutti la tradizione umana antropologica di cui fa parte anche il dialetto, le radici dell’area. È difficile farlo, sia perché mancano i soldi, sia perché abbiamo la bellezza di 8700 comuni che non si riconoscono nella stessa tradizione. Giuseppe Gioacchino Belli per esempio è un grande però…io sono romano di prima generazione, e posso capirlo di più. Un abitante di Tivoli fa invece fatica a identificare la lingua del Belli come il suo dialetto. In più le regioni, che gestiscono il tema, sono enti che non corrispondono alle realtà dialettali. Ad ogni modo, la letteratura dialettale può essere un mezzo, ma ancora più importante è il teatro dialettale, che può essere strumento di divulgazione e rafforzamento della coscienza dialettale.”

- Tra gli autori dialettali ce ne è uno che predilige e perchè?

“Tra gli autori dialettali ce ne sono molti ma quelli a cui mi sento più vicino per affinità elettive sono Belli e Di Giacomo, ma anche Pirandello dialettali. Due poeti e un autore di teatro. E Camilleri che conosco quasi a memoria!”

http://www.reporternuovo.it/2011/01/15/una-lingua-e-un-dialetto-che-ha-fatto-carriera-lunificazione-e-stata-un-scelta-politica/
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